Inquinamento da allevamenti intensivi e Covid-19

Può davvero esistere una relazione tra l’inquinamento prodotto dagli allevamenti intensivi della Pianura Padana e la diffusione del Covid-19 in nord Italia? Diversi studi confermano la risposta affermativa.

La diffusione della pandemia Covid-19 nell’Italia del Nord è dovuta all’inquinamento?

Come è possibile che il 7% dei decessi mondiali per la pandemia del Covid-19 del 2020 si siano verificati in Lombardia?

I dati forniti dal Dipartimento della Protezione Civile al 16 giugno 2020 evidenziano che i deceduti dall’inizio della pandemia sono 34.405. Le aree geografiche con la percentuale maggiore di deceduti sono:

  • Lombardia con 49,8%
  • Emilia Romagna con il 12,8%
  • Piemonte con il 8,5%
  • Veneto con il 6%

Su 237.500 casi totali già 92.060 sono nella sola Lombardia, cioè il 38%. Nel Piemonte sono 31.090, in Emilia Romagna 28.097.

Inquinamento co-fattore del Covid-19

Perché proprio la Pianura Padana è la zona italiana maggiorente colpita dall’attuale pandemia Covid-19?

La prima cosa che viene da pensare è che queste zone della Pianura Padana sono le più inquinate d’Italia. Proprio all’inizio del 2020 ha piovuto pochissimo e in televisione si parlava ogni giorno di allarme inquinamento nelle aree del Nord.

Questa banale intuizione si sta rivelando sempre più fondata.

Diversi studi scientifici hanno identificato l’inquinamento atmosferico come importante cofattore del Covid-19, sia a livello di diffusione che di aggravamento della pandemia.

Un prestigioso team di 12 ricercatori delle Università di Bologna, Bari, Milano, Trieste e di SIMA (Società italiana di medicina ambientale) ha redatto uno studio intitolato: “Relazione circa l’effetto dell’inquinamento da particolato atmosferico e la diffusione di virus nella popolazione

In questo lavoro si afferma che la veloce diffusione del virus e dei contagi nella Pianura Padana sarebbe direttamente proporzionale al superamento dei limiti di legge giornalieri del PM10. Il particolato (PM10) fa da carrier, cioè veicola il virus. Costituisce un substrato, cioè permette al virus di rimanere attivo in atmosfera per ore o giorni ed esercita un’azione di impulso, di boots, alla diffusione del virus.

Gli autori ipotizzano che, nel periodo 10-29 Febbraio, le concentrazioni superiori ai limiti di legge del PM10 in alcune Province del Nord Italia possano aver esercitato un’azione di boost, cioè di impulso alla diffusione virulenta dell’epidemia in Pianura Padana.

L’ inquinamento atmosferico può davvero esacerbare la virulenza del Covid-19 ?

Salta subito agli occhi anche che i due più grandi focolai di questa pandemia Covid-19, Cina e Pianura Padana, sono zone industriali ad alto tasso di inquinamento atmosferico. La sola esposizione al particolato è di per sé causa di mortalità, specialmente nelle persone con malattie preesistenti.

Diverse indagini anche in altre nazioni hanno messo in luce che non è affatto azzardato ipotizzare che l’inquinamento  atmosferico sia una delle cause della particolare gravità e diffusione della pandemia di Covid-19. Cina, Pianura Padana, Corea del Sud sono zone accomunate da un alto tasso di inquinamento.

Uno studio condotto dall’italiana Francesca Dominici, insieme ad altri ricercatori della Harvard TH Chan School of Public Health di Boston, ha collegato l’esposizione a lungo termine all’inquinamento atmosferico con la mortalità per Covid-19. Sono state prese in esame 3000 contee statunitensi, fino al 4 aprile, coprendo il 98% della popolazione.

E’ risultato che all’aumento di solo 1μg / m3 di PM2,5 è associato un aumento del 15% nel tasso di mortalità di Covid-19 (una evidenza statisticamente significativa).
Quindi l’esposizione a lungo termine all’inquinamento atmosferico rende molto più vulnerabili al verificarsi degli esiti più gravi del Covid-19.

Particolato e Covid-19

Un secondo studio condotto da un gruppo di ricercatori italiani dell’Università di Siena e della Aarhus University (Danimarca) è arrivato alla stessa conclusione. L’elevato livello di inquinamento nell’Italia settentrionale potrebbe essere considerato un ulteriore cofattore dell’alto livello di mortalità registrato in quella zona.

L’inquinamento atmosferico comprometterebbe la prima linea di difesa dell’organismo costituita dalle cellule epiteliali che rivestono le mucose e dal muco secreto dalle cellule caliciformi (goblet cells), delle vie aeree superiori.

Uno studio più recente, effettuato dall’Arpa, in collaborazione con le Università di Bologna e di Bari, ha evidenziato anch’esso una possibile correlazione tra l’inquinamento atmosferico e i casi di Covid-19 riscontrati.

Essendo un territorio chiuso su tre lati da montagne, “la Pianura Padana ha una conformazione che non permette agli inquinanti atmosferici di disperdersi, come invece accade in altre aree d’Italia”, precisa Guido Lanzani di Arpa Lombardia.

Il livello di smog di Lombardia ed Emilia-Romagna è tra i peggiori in Europa e certamente il peggiore in Italia in termini di particolato.

Il particolato indica l’insieme delle sostanze sospese in aria sotto forma di aerosol atmosferico che hanno dimensioni che variano da pochi nm a 100 µm.

Sono stati analizzati i casi di contagio da Covid 19 riportati sul sito della Protezione Civile. Si è evidenziata una relazione tra i superamenti dei limiti di legge delle concentrazioni di PM10 registrati nel periodo 10-29 febbraio e il numero di casi infetti aggiornati al 3 marzo. E’ stato considerato un ritardo temporale intermedio di 14 giorni, approssimativamente pari al tempo di incubazione del virus.

elevate concentrazioni di particolato e espansione dell’infezione

In Pianura padana si sono osservate le curve di espansione dell’infezione, che hanno mostrato accelerazioni anomale. C’è una evidente coincidenza, a distanza di 2 settimane, con le più elevate concentrazioni di particolato atmosferico. Questo ha esercitato un’azione di boost, cioè di impulso alla diffusione virulenta dell’epidemia.

Il particolato è infatti un efficace vettore di trasporto per molti contaminanti, virus compresi.

Lo conferma Gianluigi de Gennaro dell’Università di Bari: “Le polveri fanno da carrier, è necessario ridurre al minimo le emissioni sperando inoltre in una meteorologia favorevole”.

I settori economici più inquinanti

Secondo lo studio dell’Ispra (Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale), nel 2018, riscaldamento e allevamenti sono i settori più inquinanti (responsabili in totale del 54% del PM2,5 in Italia), seguiti da trasporti stradali (14%) e industria (10%).

Lo studio di Ispra analizza sia il particolato primario sia quello secondario. Quando si parla di inquinamento, infatti, spesso si fa riferimento alle emissioni primarie emesse direttamente, ad esempio, dai tubi di scappamento delle auto. Interessante, però, è vedere cosa cambia nelle percentuali se si prende in considerazione anche il particolato secondario, ovvero quello prodotto in atmosfera da reazioni chimiche che coinvolgono diversi gas.

Percentuali rilevanti di particelle di natura secondaria si formano in atmosfera a partire da ossidi di azoto e di zolfoammoniaca e composti organici volatili. Calcolare esclusivamente il Pm primario porta a distorsioni importanti.

Per esempio, nelle principali città lombarde, il particolato secondario è maggiore del primario. La nuova analisi ribalta la classifica delle attività che più di tutte contribuiscono alle emissioni inquinanti. Proprio nella Pianura Padana si concentra il maggior numero di allevamenti intensivi, tra i principali settori che contribuiscono all’inquinamento atmosferico.

GLI ALLEVAMENTI INTENSIVI

È emblematico il dato nazionale sugli allevamenti intensivi. Il loro contributo al Pm primario è irrisorio, ammonta in media a poco più dell’1,5% delle emissioni totali.

“Al contrario – spiegano gli esperti – diventano centrali se si prende in considerazione anche il particolato secondario. Ovvero quello derivante dalla produzione di ammoniaca (NH3) che, liberata in atmosfera, si combina con altre componenti per generare proprio le polveri sottili”.

Ed è enorme la quantità di ammoniaca prodotta da bovini, suini e ovini stipati negli allevamenti intensivi. Oltre il 75% dell’emissione di ammoniaca in tutta Italia.

Come spiega Mario Contaldi, esperto dell’Ispra: “Non basta fermare il traffico. Non basta agire sul riscaldamento. Per migliorare la qualità dell’aria che respiriamo si deve agire anche sugli allevamenti”.

Emissioni di ammoniaca

L’ammoniaca che fuoriesce dagli allevamenti intensivi “concorre mediamente a un terzo del PM della Lombardia, ma durante gli episodi acuti tale contributo aumenta superando il 50% del totale”, precisa Guido Lanzani di Arpa Lombardia. Cruciale, quindi, il ruolo degli allevamenti, responsabili di circa l’85% delle emissioni di ammoniaca in Lombardia.

Anche secondo questo studio l’inquinamento è causato dai liquami prodotti dagli allevamenti intensivi di bovini, suini e pollame. Questi liquami, se non trattati adeguatamente, causano inquinamento delle falde acquifere e anche dell’atmosfera.

I liquami e il letame generato dagli allevamenti vengono raccolti e poi utilizzati come concime. Non appena i concimi vengono distribuiti sul terreno sono a diretto contatto con l’aria e una parte dell’ammoniaca presente nel concime fuoriesce.

Le temperature e il vento sono fattori determinanti per le perdite di azoto: più elevate sono le temperature e la velocità del vento, maggiori saranno le perdite di ammoniaca.

Alcuni comuni lombardi superano i limiti del carico di azoto

Un’inchiesta di Geenpeace ha evidenziato che il 50% dell’intero patrimonio suinicolo nazionale è allevato nella regione Lombardia (circa 4,3 milioni di capi), nonché il 25% dei bovini del nostro paese.

L’11% dei comuni lombardi (168 su 1.507), nel 2018, hanno superato  i limiti di legge per il carico di azoto. Hanno avuto più capi animali rispetto alla capacità del proprio territorio di assorbire l’azoto derivato dagli effluenti zootecnici.

“Il limite di 170 chili/ettaro di azoto è superato in gran parte delle aree agricole di pianura delle province di Bergamo e Brescia, nella parte sudoccidentale e nordoccidentale (al confine con la provincia di Brescia) della provincia di Mantova, nel settore settentrionale della provincia di Cremona e in alcuni comuni della provincia di Lodi. Così si legge sui documenti ufficiali della Regione. In alcuni comuni viene frequentemente superato anche il limite di 340 chili/ettaro”.

Quando l’accumulo di azoto è eccessivo, i nitrati, in virtù della loro alta solubilità in acqua, si trasferiscono più facilmente dal suolo ai corpi idrici superficiali e alle falde, mettendo a rischio la qualità delle acque.

Ma, sottolinea Greenpeace, proprio il 45% dei fondi PAC del 2018 per la zootecnia lombarda (€120 milioni) sono stati destinati ai 168 comuni che sforano i limiti di azoto.

La produzione industriale di carne ha favorito la trasmissione del COVID-19

Non c’è dubbio che gli allevamenti intensivi siano estremamente pericolosi. E’ qui che sono nate ad esempio due forme di influenza aviaria altamente patogene, l’H5N1 e l’H7N9, che presentano un tasso di letalità del 30% e oltre, di gran lunga molto più alto di quello del Covid-19.

Inoltre, in questa pandemia da Covid-19, gli allevamenti e i macelli sono diventati dei focolai di coronavirus che hanno messo in pericolo la salute dei lavoratori della filiera, e assieme a loro, di tutti coloro con cui sono entrati in contatto, anche gli stessi animali.

Negli Stati Uniti, ad esempio, durante la pandemia, gli operai impiegati nell’industria della carne hanno dovuto continuare a lavorare perché questo settore è stato sin da subito considerato “essenziale”, al pari di altre produzioni alimentari. Evidentemente però non sono state prese misure adeguate per limitare la trasmissione del virus, come ad esempio il distanziamento sociale.

Negli USA il più grande focolaio di coronavirus è scoppiato all’interno di un impianto di lavorazione della carne nel South Dakota, dove si sono registrati 1.000 casi.

La pandemia ha aggravato una situazione già critica per i lavoratori, fatta di sfruttamento, paghe da fame e rischi per la salute.

Tyson Foods, è stato costretto a chiudere alcune delle sue strutture a causa del numero di contagi tra i dipendenti. Le maggiori catene di supermercati statunitensi hanno imposto delle restrizioni sulla vendita di carne. 1.043 ristoranti della catena di fast food Wendy’s hanno smesso di servire prodotti contenenti carne bovina.

Milioni di animali uccisi

Ma la chiusura degli allevamenti ha anche esacerbato le già precarie condizioni degli animali destinati al macello.

Gli animali, o perché inutilizzabili, o perché contagiati dagli uomini, sono stati uccisi a milioni in modo atroce.

E non è accaduto solo in altri continenti. Secondo quanto denunciato dal giornale tedesco Spiegel, circa 600 lavoratori in alcuni macelli tedeschi sarebbero risultati positivi al Covid-19.

In Puglia un macello ha chiuso i battenti per due settimane dopo che 71 impiegati sono risultati positivi al virus.

Un consumo di carne esagerato

Il consumo di carne a livello globale ha raggiunto negli ultimi anni numeri incredibili anche in quei paesi tradizionalmente carenti di carne nella loro alimentazione.

Oggi in Cina mangiare carne rappresenta il segno più tangibile dell’ascesa sociale, dell’uscita dalla miseria. Questo ha portato ad un’esplosione del consumo di carne.

In Cina sono 60 i kg di carne pro capite, 120 kg in America, e in Europa tocchiamo gli 80 kg a testa.

I CAFO (Concentrated Animal Feeding Operations) sono  allevamenti su scala industriale che hanno l’obiettivo di produrre la maggiore quantità di carne nel più breve tempo possibile per sfamare un mercato in enorme crescita.

La presenza di enormi allevamenti industriali ha buttato fuori dal mercato i piccoli allevamenti familiari e li ha spinti anche vicino le foreste. Molti piccoli allevatori hanno quindi iniziato a cacciare animali selvatici da vendere nei “wet market”.

Con l’aumentare della presenza dell’uomo in ecosistemi dove pipistrelli e altri animali selvatici potevano in passato vivere indisturbati, è aumentato enormemente anche il rischio del salto della specie del virus da un animale all’essere umano.

La provincia cinese dell’Hubei è una vera e propria fabbrica di epidemie. In questo marzo 2020 vi si è verificato anche il primo focolaio dell’anno di peste suina africana (PSA), non trasmissibile agli esseri umani. Per frenare il contagio non resta che uccidere tutti i casi conclamati e sospetti.

Le condizioni insostenibili degli animali negli allevamenti

Per soddisfare questa grande fame di carne sono stati costruiti capannoni immensi, addirittura su più piani, con animali privati della possibilità di espletare qualsiasi bisogno, sottoposti a continue sofferenze, considerati neanche esseri viventi. Vivono in capannoni bui, ammassati gli uni sugli altri, tra i loro escrementi e in condizioni pessime che non fanno altro che esporli con estrema facilità alle malattie.

Per limitare le malattie, gli allevatori ricorrono all’utilizzo di antibiotici, spesso a uso preventivo. In Italia il 70% degli antibiotici venduti viene destinato agli animali (siamo il terzo paese in Europa).

Questo uso indiscriminato ci sta portando a un’altra emergenza: l’antibiotico-resistenza, ovvero la capacità dei batteri di resistere ai farmaci e mutarsi, fino a sopravvivere. Nel nostro paese sono 10.000 le morti contate ogni anno a causa di questo fenomeno, vale a dire praticamente un terzo di quelle dell’intera Europa (33.000).

Questi enormi allevamenti sono diventati vere e proprie fabbriche di morte a tutti i livelli. Si stipano migliaia di animali che possono diventare laboratori viventi di mutazioni virali, tali da provocare nuove malattie e epidemie.

Soldi pubblici ancora agli allevamenti intensivi

A parte tutti questi problemi c’è quindi una correlazione tra inquinamento causato dagli allevamenti intensivi e la pandemia da Covid-19.

Anche se gli allevamenti intensivi si confermano insostenibili da diversi punti di vista, non ultimo le condizioni di vita degli animali inaccettabili, una gran quantità di soldi pubblici continua a foraggiare questo sistema, a cominciare dai sussidi della Politica Agricola Comune (PAC). Stiamo parlando di cifre tra il 18% e il 20% del budget annuale complessivo dell’Ue. Un cambiamento che deve avvenire anche nell’ambito della riforma della PAC.

Noi esseri umani siamo troppi e stiamo consumando le risorse in modo avido. Da anni ci si è accorti della necessità di un sistema economico più sostenibile, ma finora non è cambiato molto, e talvolta alcune cose sono peggiorate.

Per proteggere l’ecosistema mondo è indispensabile indirizzare la nostra dieta verso le proteine vegetali.

Questa pandemia ci sta offrendo un’opportunità preziosa per risistemare l’ordine delle nostre priorità e abbracciare un cambiamento positivo per tutti, animali compresi. Non dimentichiamoci mai dei diritti degli animali.

La risposta alla pandemia non può essere solo limitata a farmaci, vaccini, sussidi. Il problema non è il virus, ma tutto quello che sta dietro. Ci vuole una svolta a livello di cura dell’ambiente, e un serio cambiamento verso un’economia sostenibile.

Si ringrazia Greenpeace e essereanimali.org per le notizie e le foto fornite sul web.

Foto di Pascvii da Pixabay